Crisi, soggettività e terza via

A Padova, negli spazi dello Sherwood Festival, lo scorso 8 luglio si è tenuta una assemblea informale tra molte realtà di centri sociali provenienti da varie zone d’Italia. Quello che segue è un documento di sintesi della discussione, che è la base per far circolare il dibattito, anche fra chi non c’era. Alla fine una proposta: seminario/meeting a Jesi (AN) il 28,29,30 Settembre.

La crisi, o la rete di crisi articolate e convergenti nel quale siamo immersi, ci impone un continuo sforzo di rielaborazione. Per dirla in altri termini se non abbracciamo né le teorie del “crollo” capitalistico né quelle che intravedono il ritorno di un riformismo neokeynesiano dietro l’angolo, dobbiamo necessariamente insistere sulla crucialità della soggettività nel costruire l’alternativa. Ma per poter ragionare di questo serve un punto di vista condiviso, appunto, tra soggettività. Non esiste la soggettività “di per sé”, determinata solo dall’accumulo di storia condivisa e similitudini di discorso. La costruzione del pensiero e dell’azione politica è la negazione del primato dello spontaneo e dell’imprevisto, a scapito di ciò che è organizzato. Le teorie deboli infatti contrappongono questi due grandi nodi dell’azione collettiva, del farsi movimento. Chi si organizza, chi lavora troppo sulla propria soggettività, vuol dire che non sa cogliere le novità dei comportamenti sociali; di contro chi invece è concentrato troppo sulla lettura, spesso più sociologica che politica, della fenomenologia del vivere sociale, si abbandona all’idea che basti osservare e farsi trasportare dal flusso, e non di rado si illude che per guidarlo basti saperlo descrivere. Noi crediamo che ambedue questi estremi siano modi di intendere l’essere “soggettività in movimento” non soddisfacenti, e comunque figli legittimi di quel determinismo, che alla lunga la soggettività la distrugge. Non vi è molta differenza tra chi non è capace di pensare che bisogna essere sempre disposti a cogliere l’attimo, a stare dentro ciò che accade per sapere realmente cosa accade e per tentare di capire perché, e chi invece si abbandona a ciò che è già accaduto, e quindi non può che essere trasportato dagli eventi senza mai porsi il problema che il corso delle cose può essere cambiato soggettivamente. Noi riteniamo necessario non essere né l’uno né l’altro. Costruire una forte soggettività a partire da ciò che siamo e pensiamo, quindi capace di esercitare azione politica e modificare ciò in cui siamo immersi, e allo stesso tempo dotarla di quelle qualità necessarie a non trasformare l’identità in ghetto, la convinzione in autosufficienza. Come per la crisi tra “crollisti” e “neo-riformisti”, anche per la soggettività in movimento scegliamo la terza via, tra “tradizionalisti” e “nuovisti”, tra “autistici” e “semiotici”. Abbiamo bisogno di elaborare collettivamente una nuova teoria della soggettività in movimento che ci permetta di essere adeguati a ciò che abbiamo di fronte, ed è uno scenario completamente nuovo per quanto riguarda il sistema economico e politico dominante, come naturalmente per ciò che concerne l’organizzazione e la qualità dello sfruttamento. E’ per questi motivi che abbiamo deciso di ritrovarci e discutere, per questa necessità diffusa e comune tra tante realtà di centri sociali sparsi in tutta Italia. La terapia collettiva alle due malattie dell’infantilismo politico più diffuse, l’autosufficienza narcisistica e il voyerismo autopoietico, abbiamo scelto di autocostruircela a partire da un’assemblea, da una discussione onesta, diretta, senza mediazioni sulla realtà e con molta disponibilità invece a cercare i motivi e i modi per ricostruire un nostro spazio politico, il luogo della nostra soggettività. Vogliamo sintetizzare ciò che è emerso, perché su questi nodi abbiamo deciso di proseguire il percorso che si è avviato già da settembre, con un appuntamento seminariale aperto. Scriviamo questo documento per invitare tutte le realtà collettive di centri sociali, collettivi, associazioni che sentono il bisogno di confrontarsi per capire insieme come affrontare le sfide di un nuovo anno politico che si preannuncia complicato e difficile, forse più di quello che abbiamo appena trascorso. La ragione di fondo, dunque, è questa: non ci rassegniamo all’esistente, e nemmeno a ciò che si è già determinato in termini di movimento. Pensiamo che ci sia sempre spazio, e anche tanto, per un’azione politica dal basso che in termini di quantità e qualità, sia significativa, centrale. I margini ci rendono insofferenti, come le false centralità dell’abbandono alla tendenza. Vogliamo capire, vogliamo decidere, vogliamo fare.

 

Muoversi nell’anno elettorale: scommettiamo sulla ripresa del conflitto sociale

L’anno politico, che si apre dal prossimo settembre, è quello delle elezioni. E quando ci sono di mezzo le campagne elettorali, per i movimenti muoversi è certamente più complesso. Lo spazio del dibattito pubblico sarà occupato militarmente dalla campagna elettorale, e soprattutto il discorso dell’alternativa verrà probabilmente “preso in ostaggio”, manipolato, tirato a destra e a sinistra per cercare di guadagnare voti.

Ma quello che sta accadendo in questi giorni in Spagna dal punto di vista del conflitto sociale, e l’oggettivo inasprimento della crisi dell’eurozona sottoposta ad una intensificazione del processo speculativo sul debito, ci fa scommettere su un autunno di lotte e di allargamento sociale del conflitto. Questo perché, in assenza di risposte efficaci della governance, e anzi con un suo ripiegamento sull’austerity e sulla privatizzazione dei beni pubblici e del welfare come unica risposta alla crisi, la possibilità perché si apra in termini sociali un autunno di proteste, di lotte di resistenza, e quindi anche di potenziale progetto di alternativa, è più concreta. La Spagna in questi giorni ci ricorda come il dato materiale della crisi, al di là di ogni alchimia politica, poi presenti sempre il conto. In Spagna c’è un governo di destra, come se ci fosse ancora Berlusconi da noi. Risulta chiaro che la situazione, dal punto di vista della relativa facilità di ricomposizione sociale e politica in termini di opposizione all’esecutivo, è diversa. Fino ad ora, qui in Italia, il Governo Monti si è rivelato come una efficace, dal punto di vista capitalistico, opzione di governance che ha saputo intervenire contemporaneamente sia sul piano interno che sulla scena europea. Il post-berlusconismo interpretato da Napolitano, ha infatti avuto la caratteristica fondamentale di disinnescare quell’indignazione montante che ci ha portato in trecentomila il 15 ottobre, e che prima aveva spinto il cambiamento nei passaggi che hanno caratterizzato la prima parte dell’anno. La vittoria referendaria e la primavera delle amministrative di Napoli, Cagliari, Milano, hanno potuto dispiegarsi a partire da un collante inedito, un antiberlusconismo che, forse per la prima volta dopo Genova, saldava la necessità di mandare a casa una classe politica delegittimata ed imbarazzante per la sua arroganza, con un programma di alternativa possibile, dai diritti sul lavoro ai beni comuni, dall’università ai territori. E’ su questa particolare dimensione che il comando, impersonificato da un decisionismo presidenziale senza precedenti, è intervenuto per impedire che appunto l’indignazione si facesse progetto di alternativa. Saltando a piè pari le elezioni, il “Governo tecnico” ha utilizzato il terrore della crisi, alimentando a colpi di spread la paura dell’ “uomo indebitato”, per legittimare la sua nomina e la sua mission, riassunta dalle direttive di una Bce che già dall’agosto del 2011 aveva dato precise delucidazioni su come la rete dei poteri politico finanziari europei a guida tedesca intendevano far pagare la crisi ai più deboli. Il montismo ha ricoperto immediatamente anche una funzione europea: forte del consenso interno, e dei poteri illimitati conferitegli da un parlamento totalmente prostrato, ha giocato e gioca un ruolo importante nella ridefinizione degli equilibri di governance interni all’eurozona, precedentemente troppo sbilanciati sugli interessi specifici di un solo governo, quello condotto dalla cancelliera Merkel. In tutti e due i casi, il montismo doveva e deve saper contenere le spinte alla rottura, sociale e politica, che la crisi profonda dell’Eurozona, potrebbe portare con sé, con grande preoccupazione degli interessi finanziari organizzati nei trust delle banche private e delle agenzie di rating. La funzione di regolatore di tensione, il governo Monti, la misura in termini di efficacia delle sue politiche, peraltro devastanti peggio che nei ventanni berlusconiani, sul rapporto tra crisi e condizioni materiali : durerà il consenso della paura prima, e della rassegnazione poi, sul quale il governo dei banchieri ha potuto contare fino ad ora, difronte ad un sostanziale ed ulteriore precipitazione della crisi? E’ possibile di no, come la Spagna suggerisce. E’ possibile che l’effetto “contagio”, di cui tanto si parla riferendosi allo spread, maturi anche sul piano sociale: Grecia, Italia e Spagna, il fronte sud dell’europa e l’anello più debole dell’eurozona, sono più vicine di quanto lo siano mai state. Noi vogliamo scommetterci, e pensiamo che ci siano buone e fondate ragioni per farlo. L’anno che si è appena chiuso con l’approvazione definitiva della riforma Fornero sul lavoro, modifica dell’articolo 18 compresa, e che ha visto non solo confermare tutto il peggio del berlusconismo, dalla scuola alle privatizzazioni, ma anche l’innalzamento dell’età pensionabile per milioni di persone, era iniziato con le grandi mobilitazioni della Fiom e con le ondate degli studenti anti-Gelmini. Si è chiuso invece con le piazze vuote di fronte ai palazzi del potere, e con il balbettio dell’opposizione politica. Partiamo da questo, con molta umiltà, ma per nulla rassegnati. Dobbiamo e possiamo anche noi contribuire a far cambiare il vento.

 

Una scelta di campo

Abbiamo definito insieme alcuni punti di omogeneità tra di noi: sul ruolo della soggettività abbiamo già detto, ma ci interessa ribadire e rinnovare in termini di produzione di senso, il concetto di “soggettività in movimento”. Non da oggi abbiamo compiuto una scelta di campo precisa, quella di movimento. Riguarda innanzitutto la nostra visione del cambiamento: radicale, perché non vi è alternativa. Non esistono i presupposti né storici, né politici né economici, per poter aggiustare in qualche modo l’oppressione del sistema capitalistico. Lo diciamo contro ogni visione dogmatica, o peggio feticistica, dei processi rivoluzionari, e consci delle difficoltà. Ma se il sogno di una società di liberi ed eguali accompagna noi e molti prima di noi, da sempre, la realtà della crisi contemporanea ha rafforzato e reso visibile a moltissimi che non vi può essere alcuna alternativa senza il superamento del sistema capitalistico, ancor più oggi nella forma che esso assume, tra finanziarizzazione e precarizzazione, tra devastazione ambientale e innalzamento suicida del consumo energetico, tra crisi alimentari e climatiche. L’alternativa, come movimento che cambia lo stato di cose presenti, è un’utopia possibile. Il suo carattere utopico impedisce di ridurla a una tecnica, a una procedura o a scelte politiche che rimangono nel campo delle compatibilità di sistema. Il suo essere possibile è generato dalla crisi del sistema, dall’assenza di sbocchi in avanti per il capitalismo che oggi si attesta come una condizione perennemente sul limite del baratro, e quindi incapace di rispondere alle sue stesse contraddizioni, e contemporaneamente costruito solo su di esse. L’alternativa dunque, come ogni movimento, è un processo, e non un’ora X nella quale scattare verso il Palazzo d’Inverno. Come processo si articola in termini complessi, e accumula forza dal coniugarsi di fattori diversi, di situazioni che possono chiudersi e aprirsi dall’alto e dal basso, da ogni battito di farfalla in Cina come dal ciclone che esso provoca negli Usa. Ma è la radicalità del progetto, quello di un superamento in termini di conflitto del capitalismo, a dotare di autonomia il movimento dell’alternativa. E siccome parliamo di movimento, movimento di società, di milioni di donne e uomini, movimento capace di produrre egemonia culturale prima di tutto contro il pensiero dominante, noi pensiamo che sia strategico essere e farsi immediatamente movimento. Le grandi trasformazioni della storia non sono mai avvenute per procedure o per legge. Sono state sempre il frutto in primis di sommovimenti sociali che si sono fatti potenza costituente contro il potere costituito. I movimenti di società non sono gli unici attori nella scena storica dei grandi cambiamenti, ma di certo sono tra i protagonisti. Essere in movimento significa dunque recuperare lo spirito costituente delle grandi narrazioni, ambire a far parte di qualcosa che può imprimere una svolta alla vita sociale e alla sua organizzazione collettiva. In questo senso farsi movimento è innanzitutto dar corpo, qui ed ora, ad un desiderio e ad una convinzione: il desiderio di trasformazione, irriducibile per chi non si rassegna all’esistente, e la convinzione che questo processo ha bisogno di una grande spinta radicale dal basso, che si innervi nella società concreta, proprio perché si determina immediatamente come costruzione di nuova società e di nuova democrazia. Il movimento è dunque una scelta di campo, radicale nelle sue motivazioni e per il suo scopo, e a nostro avviso colloca chi la compie a diretto contatto con una delle grandi questioni sollevate dalla crisi contemporanea: la separazione progressiva tra sistema capitalistico e fondamenti della democrazia per come si è storicamente determinata, quella che si potrebbe definire “dello stato borghese” o liberale, quella insomma che abbiamo conosciuto fino ad ora. Questa divaricazione di certo non inizia oggi: la denuncia e le lotte contro la “finzione democratica” sono un patrimonio comune accumulato da generazioni. Diritti civili e sociali sono stati conquistati nell’infinita corsa verso la liberazione dal lavoro salariato, imponendo costituzioni formali più democratiche. Come se l’apice di un ciclo storico fosse stato raggiunto, oggi siamo in presenza di una fase “discendente”, che rende il rapporto tra capitalismo e democrazia inversamente proporzionale. Al massimo dello sviluppo capitalistico, fase che potremmo anche definire della sussunzione reale del lavoro al capitale, corrisponde una rapida involuzione dei livelli di democrazia esistenti. Il tradizionale “deficit” democratico proprio dei sistemi capitalistici, a cavallo della crisi si è trasformato in un attacco alla democrazia, sostituita da dispositivi di governance autoritari e oligarchici, che affondano le loro radici nel mercato e nella finanza. Stiamo parlando di governance, non di dittatura classica: una post-democrazia istituzionale, che sta costruendo l’Europa dall’alto, e riassegnando compiti e funzioni alle costituzioni degli Stati che la compongono. Il tutto senza alcun coinvolgimento dei cittadini, e con un’ormai evidente esclusione dai processi reali di decisione degli stessi parlamenti, da quello dell’Unione a quelli nazionali, ridotti al massimo a ratificare diligentemente ciò che banchieri, notabili e manager hanno già deciso altrove. La scelta di campo del movimento si configura quindi come opzione all’altezza della sfida, cioè già immediatamente critica verso le forme dell’organizzazione sociale del consenso che si articolano dal sistema dei partiti e dal parlamentarismo, per obbligare la società a stare immobile di fronte al progressivo restringimento dello spazio democratico. I movimenti, e le soggettività che ad essi si riferiscono nella loro azione politica, non possono che essere terreno costituente di nuova democrazia. Non possono che utilizzare la prerogativa dell’essere fuori dal sistema della rappresentanza, per costruire nuove forme del vivere collettivo, nuovi luoghi e pratiche della decisione, radicalmente oltre e contro la post-democrazia.

 

Centri sociali e nuovo progetto

La scelta del movimento dunque è strategica e troppo importante per renderla in qualche modo facile o peggio, banale: in questo senso il “movimentismo” ci appare come malattia infantile. Le facili suggestioni che derivano da una lettura debole del post-strutturalismo francese o delle teorie della rete, che assegnano un compito sostanzialmente di disponibilità e di osservazione alla soggettività di ciò che si muove, riducono di molto la potenzialità e il ruolo dei movimenti come forza costituente nel tempo attuale. Confondono, queste facili suggestioni, il problema dell’orizzontalità che è e deve essere una tendenza continua nella costruzione della pratica del comune contro la post-democrazia autoritaria, con il disarmo sostanziale dei dispositivi organizzativi progettuali di parte. Il costituirsi in rete progettuale di movimento per esercitare azione politica non si contrappone allo sviluppo autonomo dei movimenti, alla loro capacità di estendersi e articolarsi nella dinamica sociale, diffondendo idee e pratiche. Anzi. Ma per sperare che ciò avvenga, per far sì che le cose si mettano in moto, la costituzione di parte e la capacità propria di intervento politico, non sono né rinviabili né delegabili. Per questo pensiamo che costruire una rete tra centri sociali, capace di essere nei movimenti ma anche di promuoverli, che abbandoni ogni tentazione autoreferenziale e ideologica, e sappia distinguersi invece per spirito di generosità nel contribuire al comune, e di disponibilità verso qualsiasi cosa si muova nel senso dell’alternativa, sia oggi possibile ma soprattutto necessario. Partiamo, come sarebbe sempre giusto fare, da ciò che siamo: centri sociali, luoghi dove la politica si coniuga con la sperimentazione del vivere in collettivo e in autogestione, spazi che non possono che guardare al mondo tenendosi alle proprie radici che si innervano nei territori di cui sono parte. Sarebbe sbagliato non riconoscere come i centri sociali, la vera anomalia italiana di movimento, in questi anni sono stati elementi fondamentali nella produzione di immaginario, di soggettività, di ricerca e pratica politica autonoma. Come sarebbe sbagliato pensare che il loro corso, e il loro ruolo, sia esaurito, o collocabile solo al passato. La pratica dell’occupazione di spazi politici del comune, è quanto mai attuale, e va rilanciata. I centri sociali, fuori da ogni logica che li consegni semplicemente a territorio giovanile, possono essere nodi di un accumulo potente di tutto quello che la contemporaneità ci consegna: la cooperazione sociale come terreno del conflitto tra un capitalismo vorace che vuole imbrigliarla e le spinte continue a renderla campo dell’emancipazione, l’autoformazione che si contrappone alla fabbrica del pensiero unico che avvilisce scuola ed università, le battaglie ambientali che si arricchiscono oggi del paradigma dei beni comuni, le dinamiche mutualistiche, che ritroveranno grande centralità al tempo dello smantellamento del welfare e della privatizzazione dei servizi. In questo senso essi sono il terreno di autorganizzazione complessiva della soggettività, in una articolazione di composizione sociale e generazionale che va oltre qualsiasi visione su di essi rivolta al passato. I centri sociali sono il nostro bene prezioso, e da lì appunto, cominciamo a ragionare. Non per stare fermi! Una rete autonoma progettuale che abbia nei centri il suo fulcro, non può che dotarsi di alcune caratteristiche per essere tale: la vediamo come spazio complessivo, capace cioè di articolarne altri quando le condizioni sociali lo permettano, ma anche immediatamente propositiva sui terreni del conflitto. Per avere questa forza, la rete deve dotarsi di una propria omogeneità politico-teorica e di pratiche di lotta in cui tutti si riconoscono e che si determinano insieme. Un’omogeneità di fondo, non dogmatica e sempre capace di ricevere arricchimenti dall’interno e dall’esterno, ma un’omogeneità precisa, non confusa, non basata solo sulla conoscenza reciproca, ma costruita solidamente su una condivisione piena. La suggestione, emersa dall’assemblea che ha dato vita a questo documento, è quella che essa si doti di un nome comune, che potrebbe essere quello di Coalizione dei centri sociali. I nomi comuni sono importanti, perché permettono di muoversi in maniera forte e articolata e allo stesso tempo unitaria. Come l’espressione concreta di pratiche e modalità di lotta, che costruiscono concretamente il nostro stare insieme. E se si vuole essere motore di qualcosa di più grande, e in particolare se si vuole contribuire alla costruzione del comune, dobbiamo abituarci ad offrire specificità e particolarità di ognuno a favore di qualcosa che è di tutti insieme. Abbiamo individuato, in questa prima discussione, alcuni nodi sui quali costruire insieme approfondimento, ma che costituiscono già il terreno sul quale incardinare un programma condiviso:

-sul terreno del rapporto tra capitale e lavoro, il nesso tra la precarietà come condizione generale e il reddito di cittadinanza;

-sul rapporto tra capitale e questione ambientale, la questione dei beni comuni e i terreni di lotta posti dai comitati ambientali e dalle comunità che difendono i loro territori dalle devastazioni;

-sul rapporto tra capitale, formazione e circolazione dei saperi, riprendendo con forza i temi posti in questi anni dai movimenti studenteschi di scuole ed università, ma anche dalle nuove esperienze di lotta legate alla cultura;

-sul rapporto tra capitale e feticci spettacolari, con particolare riferimento allo sport, valorizzando invece le esperienze che si stanno dispiegando in tutta Italia di polisportive e palestre sociali.

-sul rapporto tra lotte sociali e democrazia, dove la prospettiva di riappropriazione degli spazi di libertà e di decisione passa attraverso la rottura del principio di legalità quale strumento di subordinazione della cooperazione sociale e l’affermazione di nuove ed autonome fonti di un altro diritto che cresce nel sociale e si impone come risposta conflittuale alla crisi ed ai suoi processi di ristrutturazione. All’interno di questo nodo concettuale va sviluppata con proposte concrete l’ipotesi di funzionamento in rete e di organizzazione della decisione collettiva.

 

L’alternativa come movimento reale che trasforma…

Questi primi punti servono naturalmente solo per aiutarci a cominciare a segnare la strada da percorrere. Un cammino che di certo ha bisogno anche di fare il punto sulla crisi, su ciò che essa realmente esprime e attraverso quali peculiarità. Ad esempio il suo concentrarsi sull’Europa, pone immediatamente come irrinunciabile per chiunque voglia fare politica, assumere lo spazio europeo non solo come il laboratorio concreto dove osservare ciò che si determina nel senso della governance, delle politiche che poi ricadono sui vari paesi, della riscrittura delle costituzioni dall’alto, ma anche come lo spazio politico dove esercitare il conflitto tra l’esistente e l’alternativa possibile. Che senso hanno oggi, nel tempo del fiscal-compact, del pareggio di bilancio elevato a strumento di normazione politica europea, dei processi di unificazione bancaria e fiscale, se non solo quello di esercizi demagogici e populisti, tutte le ipotesi politiche che si fondano su un anti-europeismo di bandiera? Che cosa significa, a meno di non essere in fondo d’accordo con i nazisti di Alba dorata greci, essere contro l’Europa e quindi per il ritorno della decisione in patria? Per essere contro questa Europa siamo obbligati a costruirne un’altra. Ma l’analisi libera sulla crisi, come abbiamo detto, ci dà la possibilità di rinforzare il nostro materialismo. E quindi l’aspetto non di crollo che caratterizza la sofferenza sistemica del capitalismo, unitamente al fatto che nessun piano neo-riformista keynesiano sembra possibile e all’interno di un quadro globale che è terreno unico ma non unitario del dispiegarsi della crisi stessa, che cosa ci indica? Al di là di implicazioni che vanno continuamente approfondite ed elaborate, di sicuro che il discorso dell’alternativa, di un’alternativa possibile e concreta, conferma qui il suo senso profondo. E’, nella crisi, l’unica prospettiva di uscita reale, proprio perché altre ipotesi riformistiche non trovano spazio. Possiamo già tentare di definire cosa essa non è. Non è certamente il risultato di un crollo, non risorgerà dalle ceneri del capitalismo che si autodistrugge; non è il semplice prodotto dell’intensificarsi della crisi e di automatiche rivolte sociali, che tra l’altro non è affatto detto che si verifichino. Ma anche in presenza di esplosioni sociali, sarebbe semplicistico e anche pericoloso, abbandonarsi a scorciatoie che teorizzano l’alternativa come il risultato della “rabbia”. E’ molto più facile che si stabilisca un rapporto diretto tra rabbia sociale e svolte di destra. Non è, l’alternativa, nemmeno la descrizione dello sbocco politico sul terreno di governo delle lotte sociali. L’alternativa o è movimento reale, o si pone al livello di alternativa di società, o non è. O diventa il presupposto per l’attivazione di un laboratorio collettivo dove si sperimentino teoria e prassi al livello della complessità del cambiamento, oppure rimane uno slogan. Questo laboratorio non può che essere determinato da una nuova fase costituente di movimentazione sociale. Non può che muoversi a partire dalla pratica del comune, un concetto tutto da riempire di esperienze e concretezza, ma che da senso alle lotte, alla radicalità e al conflitto che dovranno necessariamente essere messi in campo per poter dire che l’ipotesi, non il suo esito, esiste. In merito a questo la discussione ha individuato nel paradigma dell’illegalità di massa un elemento fondamentale di elaborazione. Vi è la necessità di rideterminarne non solo la centralità, nella fase come abbiamo detto della post-democrazia istituzionale, ma anche il significato profondo. L’accumulo cioè che esso contiene, della delegittimazione radicata e diffusa del potere costituito, e allo stesso tempo la sua possibilità di divenire affermazione di nuova democrazia, nuove istituzioni, nuova visione del mondo. Se la disobbedienza interveniva nel ciclo montante del neoliberismo e del pensiero unico nella globalizzazione, e trovava una sua ragion d’essere proprio nel tentativo di delegittimare ciò che sembrava inattaccabile all’interno di quella fase, l’illegalità di massa con i nuovi presupposti storico politici della crisi, interviene invece per tentare di ricomporre l’indignazione e trasformarla in pratica progettuale. Abbiamo bisogno cioè di elaborare modi e forme del conflitto perché solo rendendolo legittimato socialmente, potremo pensare di allargarlo e renderlo duraturo ed efficace. Purtroppo, quando questo non avviene, sappiamo ciò che accade: il 15 ottobre e la sentenza sui dieci di Genova stanno lì a ricordarcelo. A fare da base al nostro discorso sull’alternativa, vi è perciò un’etica sociale, che afferma valori positivi e condivisi nella pratica del comune e che si contrappone all’etica pubblica che viene trasformata ormai automaticamente in sacra adorazione dello Stato, delle istituzioni, dei poteri conferiti.

 

Lotte sociali, azione politica, governance

Certo abbiamo bisogno di una visione di verità, e quindi come tale “rivoluzionaria”, sui presupposti e gli esiti stessi dei conflitti sociali, sulla loro reale capacità di produrre rapporti di forza spendibili nel confronto con la governance. Infatti non vediamo alcuna relazione conflittuale possibile, se non quella che può stabilirsi tra lotte sociali e governance, saltando a piè pari la rappresentanza. Quest’ultima è un cane morto e sepolto, sempre meno importante anche come simulacro nella post-democrazia. Rispetto alle dinamiche di governance, nella fase di transizione verso l’alternativa, si possono invece determinare volta per volta situazioni diverse. Di certo il nostro vuol essere un atteggiamento di chiara ed esplicita esternità al processo della sua formazione, ma contemporaneamente interessato a ciò che può emergere in termini di anomalia nella competizione tra diverse ipotesi di governance. Significa che riteniamo sbagliato per chi si colloca nei movimenti, candidarsi o costruire percorsi di soggettivazione elettorali. Un’esternità questa che consideriamo “attiva”: muovendo dal presupposto generale secondo cui l’unica relazione conflittuale possibile è quella che può stabilirsi tra lotte sociali e governance, essa non può precludersi ideologicamente la valutazione in ordine alle varie ipotesi di governance che possono configurarsi. Se, infatti, il conflitto è comunque una relazione, ogni variabile che interviene nelle parti confliggenti è anche una variabile del conflitto. E’ proprio dalla scelta di mettere al centro la relazione conflittuale nel suo dimensionamento reale e non ideologico che nasce la necessità di valutare di volta in volta quale contesto di governance produce maggiori contraddizioni nel campo avverso o minore restrizione degli spazi di azione per i processi di costruzione dell’alternativa.

A nostro avviso bisogna ridiscutere e approfondire insieme anche il rapporto con la dinamica amministrativa. Di sicuro qui l’interesse è più alto, più diretto. Ma vorremmo mantenere anche su questo terreno un aspetto di problematicità: il rapporto tra governi locali e organizzazione della produzione e della riproduzione sociale sta cambiando con la crisi. E quindi dev’essere anche ricompreso il senso che attribuiamo a quel nodo, che tanto tempo fa aggredimmo dal punto di vista di movimento, a partire dalla riappropriazione dei nessi amministrativi che si trovavano al centro della produzione di ricchezza, e che per questo godevano di margini di autonomia senza precedenti. Ma oggi il rapporto appare rovesciato: con la crisi i Comuni sono diventati degli esattori delle tasse più che gli inventori di nuove e concrete forme della riappropriazione di welfare e diritti. Proprio a partire da questa contraddizione ci sembra molto importante rilanciare invece il tema di una possibile relazione progettuale, in una rete che immaginiamo europea, tra Comuni che non accettano di sottostare ai diktat centrali che impongono austerity, tagli e svendita dei beni comuni. Il rapporto tra territorio e municipi è comunque tutta un’altra cosa rispetto al tema della governance centrale. Ed è per questo che crediamo sia necessario rivederlo, anche per sottrarlo a quel che di rituale e scontato appartiene più alle retoriche partecipative, della “buona amministrazione”, più che al nodo della rottura per l’alternativa.

 

 

Una proposta: vediamoci tutti/e a Jesi il 28-29-30 settembre

Questo documento serve ad avviare la discussione. A puntualizzarla tra noi che ne condividiamo i contenuti che sono in sintesi quelli emersi dall’assemblea dello scorso 8 luglio a Padova, e a discutere con tutti quelli che avranno voglia di farlo. Proponiamo però un appuntamento di seminario/meeting, non pubblico nel senso che non si rivolge a tutti indistintamente. Un incontro di tre giorni, il 28, 29, 30 settembre a Jesi, dove le realtà che sono interessate ad approfondire, a discutere e a confrontarsi insieme sulle ipotesi che in questo scritto avanziamo, a partire dal processo costituente di quella che per ora abbiamo chiamato coalizione dei centri sociali, possano partecipare.

Pensiamo a un lavoro seminariale che ci permetta di approfondire ed ampliare ulteriormente questa griglia di ragionamento, e che serva a procedere con il percorso. Tra gli ulteriori punti, toccati nel confronto di Padova, saranno oggetto di contributi scritti che faremo circolare nelle prossime settimane e discuteremo a fondo a Jesi: una rivisitazione critica del concetto di “Impero” alla luce della nuova geopolitica della crisi in rete; la ricerca di una adeguata teoria dell’organizzazione della soggettività in movimento, a partire dai contributi teorici di Foucault su rapporti di potere e governance e da quelli di Deleuze-Guattari su nomadismo e trasversalità; una rilettura della relazione contemporanea tra forma “metropoli” e composizione sociale della “moltitudine”, di fronte alle dinamiche di frammentazione indotte dalle forme del comando capitalistico nella crisi.

Pensiamo infine a una discussione organizzata, proprio per garantire la massima condivisione generale della proposte, per sessioni in assemblee plenarie tematiche.

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